lunedì 16 marzo 2009

Questo venerdì dovevamo andare dal sarto a recuperare la mia gonna rammendata. Il sarto è molto carino e gentile, a parte il fatto che chiama il Pucciu Badim, che non è il suo nome vero. Ma tanto la seconda identità del Pucciu è Nadin; questo quando lo volevano assumere per una sostituzione di maternità, ma lasciamo perdere.

Un fidanzato che si chiama Giovanni sarebbe per me un gran sollievo.

Ritornando al sarto, sperimento con lui il mio povero ebraico: il Pucciu mi dice la frase che devo dire, io la memorizzo, la ripeto come un mantra per la strada prima di arrivare dal sarto, entro e dopo il canonico “Shalom”, a macchinetta gliela ripeto.

Tutto ciò incurante di un signore in mutande in piedi su uno sgabello nel mezzo del negozio.

Signore, che ci fa in mutande? Siamo in una città superpudica, il negozio è cinque metri quadri e lei sta proprio in vetrina.

Mentre io ripeto implacabile: “devo prendere la mia gonna, il nome è Pucciu”

e noto i suoi boxer scozzesi

lui comincia a cadere lentamente ma inesorabilmente dallo sgabello, con i pantaloni alle ginocchia.

“devo prendere la mia gonna, il nome è Pucciu”

Il signore sta effettivamente crollando. Il sarto mi dice, ma io non capisco, che per la vergogna provata il tizio sta cadendo, di aspettare, e il Pucciu sghignazza.


“devo prendere la mia gonna, il nome è Pucciu!”

Dopo tale frisson, a gomiti larghi andiamo dal panettiere iracheno, affrontando la folla del pre shabbat, nella quale si distinguono per ferocia incontrollata le vecchie con il carrellino che sono a caccia di cibarie per la cena di venerdì e per il sabato. Il panettiere praticamente ci tira le focacce (smanacciate da circa 10 clienti prima di noi) mentre distribuisce challahot il pane intrecciato tipico dello shabbat, ad altri avventori.



Se siamo fortunati, finiamo le spese prima che gli ultraortodossi comincino a berciare di muoversi che tra poco è Shabbat (qui adesso scatta verso le 17.00, segnalato da una sirena), prima che veniamo fermati da mendicanti che chiedono soldi perché non hanno cibo per celebrare Shabbat, e prima che io mi infili nel negozio delle spezie e compri l’ennesima spezietta senza la quale il nostro cibo non renderà al meglio e la mia vita non avrà più un senso, provocando così una crisi isterica al Pucciu.

Gentilmente invitati per il pranzo di sabato da una famiglia italiana molto simpatica e piuttosto osservante, ci si aprono una serie di interrogativi: a Shabbat non si possono “portare” (trasportare) cose. Quile azioni proibite di Shabbat. Possiamo portare cibo? Si potrebbe ma noi, in quanto non ebrei, non rispettiamo la casherut. Possiamo portare vino? Si potrebbe ma alcuni non stappano bottiglie di Shabbat. Portiamo fiori? No, perché magari si devono tagliare e di Shabbat non si taglia. Alla fine, non portiamo nulla, solo l’ombrello perché forse pioverà.

Pranzo di sedici persone: bambini e ragazzi in maggioranza, a testimonianza della struttura demografica del paese, dove i giovani sono la maggioranza. Il capofamiglia benedice pane e vino mentre intorno è un caos allegro: infanti corrono – e parlano tre lingue - ragazzini spettegolano, poi tutti cantano in risposta alla benedizione. Il cibo tenuto in caldo su una piastra dal giorno prima (non si accende il fuoco né la luce di Shabbat) è stra-abbondante, e mi sembra paradossalmente, che sia un po’ Natale, ma senza i parenti vecchietti che si ubriacano o che scalpitano per tornare a casa dopo gli agnolotti.

2 commenti:

  1. ho riso un sacco. se vengo a trovarti porto i jeans a fare l'orlo!

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  2. costa anche poco, ma non metterti in vetrina se no sommosse e tafferugli.

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